sabato 1 ottobre 2016

Acqua Storta - La lingua crudele

Terribile. Un grido disumano che risveglia gli orrori di una realtà che ci appartiene ancora troppo da vicino . E non parlo della camorra – di quella se n’è parlato già abbastanza e per quanto è giusto parlarne ancora, non è ciò che ora interessa maggiormente, perché qui fa solo da sfondo ed enfatizza la crudeltà vissuta-. 
Vorrei parlarvi, invece ( e credo sia stata questa, tutto sommato, l’intenzione dell’autore), della paura dello scandalo, quello della scoperta sconcertante di due uomini amanti. Ed è per questa paura, per il Disonore (quello imprescindibile, con la D maiuscola), che si innescano una serie di meccanismi dai quali sarà difficile sottrarsi. Carrino ci conduce in un labirintico gioco di specchi, dove è facile perdere la testa, dove tenere tutto sotto controllo induce a un’inevitabile paranoia. E l’ignoranza, di colui che ignora perché non ha cultura e non ha assolutamente intenzione di rimediare, gioca un ruolo quasi da protagonista. Giovanni ama Salvatore ma è sposato con Mariasole; da una parte la passione e l’amore “contro natura”per questo ragazzo dal cuore gentile capace di non fare del male a una mosca , dall’altra un affetto profondo per questa donna sempre sola e con figlio a carico. 
Il linguaggio è carnale, inevitabilmente familiare, rozzo e blasfemo. L’autore non ha paura di osare- del resto si tratta di acuti neologismi quotidiani nell’uso campano-. C’è tanto sesso, brutale, selvaggio, e il dialetto dà, a mio avviso, una voluta e indispensabile crudeltà, che sfiora il sadismo ma diventa subito passione.
 Carrino scrive “pesce” e non “cazzo” perché a Napoli si dice così, scrive “sputazza” e non “saliva”, perché l’idea è resa meglio. Perché certe espressioni, tradotte perderebbero il loro senso pragmatico o ne acquisterebbero un altro. È questo, l’esempio palese di come la lingua col tutto il suo carico di significanti e significati, determina la riuscita di un testo narrativo. Grande sfida sarebbe quella di tradurre “Acqua Storta” in una lingua che non è la nostra. Le perdite sarebbero inevitabilmente molte. 
Che fortuna averlo potuto leggere nella sua lingua originale, che è anche la mia, perché ne conosco bene i substrati e ne apprezzo le sfumature.

Vincenzo Restivo

venerdì 30 settembre 2016

BRUNO ZANIN -La retorica carnale di una bellezza giovane-

Mi ricordavo di lui, era il protagonista di Amarcord di Fellini,  un viso d’angelo e tanti sogni negli occhi. Tra questi, quello di diventare uno scrittore. E Zanin c’è riuscito, un libro, un bel libro, l’ha scritto. Si  intitola “Nessuno dovrà saperlo”, inizialmente pubblicato dalla Pironti Editore e attualmente autoprodotto. Un  romanzo di formazione neorealista, 230 pagine di autorevole fascino. Potrebbe bastare come definizione, invece è anche  qualcosa di più. Zanin parla in terza persona di se stesso, il suo occhio vigile, osserva dall’alto il ragazzo che fu. E noi, spettatori passivi, assistiamo al disgregarsi di un’infanzia e un’adolescenza mai del tutto vissuta. Sandrino viene spedito in collegio da un padre fin troppo cieco per capire le sue reali esigenze. Tuttavia, la vita contadina dei suoi genitori, poco ha effettivamente da offrirgli se non accettare la possibilità che frequenti un rigoroso collegio cattolico con la speranza che
ne continui la carriera.
Ma Alessandro ha l’anima del poeta, di colui che guarda il cielo sospirando e ascolta il canto dei grilli di notte. Ad Alessandro, poi, il sesso non l’ha spiegato nessuno. Vittima della sua giovinezza, è preda di adulti approfittatoti,( Zanin la dice tutta,senza peli sulla lingua,). Il sesso descritto nel suo libro  è lo stesso dei ragazzi di vita Pasoliniani o dell’Ernesto di Saba, solo che, stavolta, non c’è consapevolezza, o almeno, non ce n’è del tutto.
Alessandro viene tradito più volte dalla sua stessa innocenza e da quegli adulti (preti annessi), che avrebbero dovuto insegnargli la strada da seguire, dargli quella protezione che i ragazzini della sua età meriterebbero, ma che invece, dopo aver pienamente approfittato della sua immatura incoscienza, non fanno altro che dargli il ben servito con un “ non farne parola con nessuno perché nessuno  dovrà saperlo”.

C’è tanta volontà di raccontarsi, in queste pagine. E forse, farlo con un nome diverso, risulta più semplice, le ferite fanno meno male. Zanin ci riesce, racconta tutto e lo fa con disinvoltura. È disarmante ma mai accusatorio. Il suo è un racconto che si limita a descrivere le cose così come sono accadute. Ma spesso, mettendosi a nudo, seppur camuffando nomi e situazioni, il vissuto è più forte della finzione stessa. Nel romanzo di Bruno Zanin, si respira la carne e il sangue, l’odore di sperma dopo il sesso e il sudore, il fetore dello sterco delle vacche e il profumo del fieno fresco.
Singolare è la divisione  in capitoli. Ad ogni capitolo corrisponde un vivido ricordo di vita, di un personaggio o  di  un’avventura, perché a rendere unica questa storia sono anche tutti gli altri personaggi da contorno che assieme a Sandro/Bruno, vivono la sua vita, sono responsabili della sua formazione e delle sue angosce esistenziali : Pua con la sua esuberanza , Il Rosso e la solitudine , Elena la perfida  e poi la vera amicizia, quella con Licurgo, che nemmeno il tempo è stato in grado di cancellare, nonostante le assurde e imprevedibili pieghe della vita.
La lingua è carnale, l’autore si muove tra dialettismi indispensabili, si avvale di una retorica genuina, colorata di ingenuità voluta che è tipica dei ragazzini di un tempo, che scoprivano la sessualità per puro gioco e quel gioco, nel caso di Alessandro, ha finito per sfuggirgli di mano. Zanin  come Peyrefitte,  ne “Le Amicizie Particolari”, ci riporta  l’inquietudine di certe carezze non volute; come Saba in “Ernesto”, ci introduce all’amore puramente carnale di un adulto, segnato nel fisico e nell’animo, per il candore giovane di un ragazzino; come Pasolini , calpesta le strade di notte, preda facile di qualcuno che di male intenzioni ne ha da vendere. Alessandro/Bruno diventa così, il bello e dannato, il Rimbaud  vagabondo alla ricerca della sua “nuit en enfer”.


Vincenzo Restivo